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Risveglio spirituale e libertà

Più volte nella mia vita mi sono trovato a confrontarmi con il basilare e affascinante tema della libertà.
Nella tradizione indovedica, la realizzazione del sé coincide con moksha, la libertà dai condizionamenti e dalle identificazioni con il mondo dell'impermanenza.
Ma cosa davvero significa “libertà”? E in che modo tale concetto può conciliarsi con la rigorosa assunzione di una disciplina di vita, fatta di astensioni e prescrizioni a cui la persona deliberatamente si assoggetta, e che nella tradizione indovedica è considerata strumento indispensabile proprio per riconquistare la libertà?
Come diceva il filosofo greco Epitteto, “nessuno è libero se non è padrone di se stesso”, se non è capace di auto-regolarsi, di dominare le proprie passioni e pulsioni, di scegliere consapevolmente lo scopo cui tendere e di porre in atto tutte quelle scelte e comportamenti che servono a raggiungerlo. Ricercare la libertà significa anche questo, ovvero significa abbandonare il selvaggio spontaneismo, che in realtà è solo spontanea espressione di condizionamenti, e cedere un po' della propria pseudo-libertà per conquistarne una autentica e superiore. 
Ciò implica dedizione, impegno rigoroso e coerente. Nella letteratura indovedica, quest'ultimo concetto è espresso con il termine tapas: accettazione volontaria di disagi per raggiungere lo scopo superiore che la persona si è prefissa. Tapas è dunque la capacità di compiere ascesi, è la forza di affrontare le difficoltà, le fatiche e gli ostacoli con determinazione e serenità, con quella fiducia che viene dall'esercizio costante di una disciplina spirituale, dalla ben accurata definizione dello scopo di valore che si vuole raggiungere e dalla consapevolezza di ciò che esso dispensa in termini di evoluzione, serenità, appagamento profondo. Libertà significa perciò anche assunzione di responsabilità: ecco perché molti la temono, dicevano Erik From, George Bernard Shaw, e molti altri pensatori. Nella letteratura Yoga della tradizione Bhakti si spiega che la disposizione ascetica o rigorosa coerenza, tapas, e la conseguente assunzione di responsabilità sono indispensabili per produrre tejas, ovvero energia e piacere nel fare, coraggio e gioia di vivere, visione, illuminazione, forza interiore, capacità di realizzarsi raggiungendo il proprio scopo. Dunque l'autentica libertà non implica assenza di obblighi o di riferimenti di valore, bensì la capacità di scegliere i doveri e le regole di vita che si intendono assumere, impegnandosi in ciò che si ritiene sia meglio per se stessi e per gli altri.
La cosiddetta libertà radicale, che tiene poco di conto del bene altrui, non è libertà autentica, così come per esempio la fissazione ossessiva per l'igiene è ben altra cosa rispetto alla virtuosa e sattvica attenzione per la pulizia del corpo e degli ambienti, o come la bulimia non dovrebbe essere certo confusa con quello che è un sano appetito, o l'anoressia con un salutare e morigerato rapporto con il cibo. La libertà vera non è anarchia o libero sfogo delle proprie tendenze egocentriche, ma principalmente si esprime come perfetto equilibrio equidistante dai due atteggiamenti opposti ma ugualmente deleteri dell'individualismo sfrenato da una parte e dell'ottusa accondiscendenza o sentimentalismo passivo dall'altra.
Si può raggiungere tale equilibrio se la libertà non è considerata di per sé il fine ultimo da conseguirsi nella vita, bensì un mezzo con cui si deve realizzare uno scopo di ordine superiore: la capacità di entrare in armonica relazione con Dio, di amare tutte le creature e di sentirsi veramente amati da Dio.
La libertà è pertanto strumento che serve a portarci al livello più alto di evoluzione, che è l'Amore; essa è un capitale da investire per ottenere tale supremo scopo. Per cui è interesse di noi tutti sacrificare la propria libertà relativa per conquistare quella assoluta, che è invero la libertà di amare. La riprova è che quando si ama veramente, si cede volentieri una quota della propria libertà per l'amore dell'altro, mentre se non si ama qualsiasi richiesta dell'altro diventa un peso. Nell'amore vero si cede una parte della propria libertà per la gioia di chi amiamo, come la letteratura Bhaktivedantica spiega al livello più alto descrivendo l'amore spirituale delle Gopi per Krishna, dei devoti per Dio. Quell'amore spirituale per il Creatore e le creature, caratterizzato da dedizione appagante, è la più alta forma di libertà autentica. Chi invece mette se stesso al centro di tutte le attenzioni, investendo la sua cosiddetta libertà nel piacere egoico, rimane invero schiavo lui stesso di quell'egoismo; non vive da libero ma da prigioniero nella rocca dei propri narcisistici condizionamenti.
Quando diamo agli altri, quando li amiamo spiritualmente e siamo benevoli verso tutti, non ci si spoglia ma ci si veste, non si perde ma si acquisisce, non s'invecchia ma si ringiovanisce, non si muore ma si rinasce, non si è schiavi ma si è liberi. È l'altro che ci permette di realizzare chi siamo, di rinnovarci costantemente, di superare i nostri limiti e di assaporare la libertà vera nella realizzazione dell'Amore immortale.

Marco Ferrini
(Matsya Avatar das)

Centro Studi Bhaktivedanta, Università Popolare degli Studi Indovedici

 

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